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Ipocondriaci o allarmisti?

Riporto di seguito un articolo apparso su R2 CULTURA di La Repubblica il 19 gennaio 2013. Personalmente, credo che oltre a descrivere molti di noi, sia del tutto esilarante. L’articolo originale del New York Times è stato pubblicato il 12 gennaio.

Confesso che il New York Times mi ha spiazzato quando mi ha chiesto di buttare giù due righe “da esperto” sull’ ipocondria. Cosa mai potevo dire io su questo comportamento bizzarro quando, contrariamente a quanto si crede, non sono un’ipocondriaco ma tutto un altro genere di svitato. Sono un allarmista, questo sì, che poi vuol dire essere in campo con gli ipocondriaci o, meglio forse, nello stesso pronto soccorso. Ma c’è una differenza fondamentale. I miei malanni non sono immaginari – sono reali.

woodyLa mia isteria si distingue nel senso che all’apparire di un minimo sintomo, ad esempio le labbra screpolate, subito salto alla conclusione che le labbra screpolate sono indice di un tumore al cervello. O forse di un cancro al polmone. Una volta ho pensato che potesse essere il morbo della Mucca Pazza. Il punto è che sono sempre convinto di avere una malattia mortale. Poco importa se quelli morti di labbra screpolate sono pochissimi. Qualunque doloretto mi porta ad andare dal medico per sentirmi dire che la mia ultima allergia non comporterà un trapianto di cuore o che a preoccuparmi è solo un’orticaria e che non è proprio possibile che un umano contragga la grafiosi dell’olmo.

Purtroppo mia moglie porta il peso di questi drammi patologici. Come quando mi sono svegliato alle tre del mattino con un segno sul collo che per me aveva chiaramente tutte le caratteristiche del melanoma. Che fosse in realtà un succhiotto è stato confermato solo più tardi in ospedale, dopo gran pianto è stridor di denti. Seduto ad un’ora assurda al pronto soccorso con mia moglie che cercava di tranquillizzarmi, stavo attraversando tutti e cinque gli stadi del dolore ed ero a “rifiuto” o “patteggiamento”, non lo so più, quando un giovane medico, scrutandomi con lo sguardo altero, mi ha detto sarcastico:  “Il suo succhiotto è benigno”.

Ma perché dovrei vivere sempre nel terrore? Sono uno che si cura moltissimo. Ho un personal trainer che mi ha portato a fare 50 flessioni al mese e, in combinazione con squat e addominali, ormai riesco tirar su 45 chili col bilanciere solo con qualche minimo strappo alla parete gastrica. Non fumo, sto attento a mangiare, evitando accuratamente qualunque cibo sia fonte di piacere. (Fondamentalmente seguo la dieta mediterranea con olio d’oliva, noci, fichi e formaggio di capra, e a parte l’impulso ogni tanto ad andare in giro a vendere tappeti, direi che funziona). Oltre a fare tutte le analisi ogni anno mi faccio somministrare e iniettare ogni possibile vaccino, per essere immunizzato contro tutto, dal morbo di Whipple alla sindrome di Stendhal.

Quanto alle vitamine, le assumo ad ogni pasto e in genere riesco a prenderne un bel po’ prima che l’ultimo studio confermi che non servono a niente. Sulle medicine sono flessibile, ma prudente, perché se è vero che gli antibiotici uccidono i batteri, ho sempre paura che uccidano quelli buoni, per non parlare dei ferormoni, impedendomi poi di emanare vibrazioni sessuali negli ascensori affollati.

È anche vero che quando esco di casa per fare una passeggiata a Central Park o prendermi un latte macchiato da Starbucks potrei farmi fare un elettrocardiogramma veloce o una tac, così, per profilassi. Mia moglie dice che è stupido e che in fondo è solo questione di geni. I miei genitori sono arrivati tutti e due ben avanti con gli anni, ma si sono assolutamente rifiutati di trasmettermi i loro geni, perché erano convinti che un’eredità spesso sia una rovina.

Anche quando i risultati delle analisi sono perfetti, mi dite come faccio a rilassarmi sapendo che, nel momento stesso in cui esco dallo studio del medico, qualcosa può cominciare a crescere in me e nell’anno che manca al successivo checkup la mia lastra del torace somiglierà ad un quadro di Pollock? Tra parentesi questa incessante preoccupazione per la salute mi ha reso sono specialista dilettante. Non che azzecchi sempre tutto, ma quale medico non sbaglia mai? Ad esempio una volta ho convinto una donna che sentiva dei ronzii alle orecchie di essere vittima del batterio carnivoro, un’altra volta ho dichiarato morto un tizio che si era semplicemente appisolato su una poltrona.

Ma cos’è questa ossessione, questo senso di vulnerabilità? Quando mi impanico per sintomi che non richiedono altro che un’aspirina o un po’ di pomata di calendula, di che cosa ho paura in realtà? Di morire, direi a occhio e croce. Ho sempre avuto un terrore animale della morte, la cosa peggiore che mi possa capitare dopo l’essere costretto ad ascoltare un concerto rock. Mia moglie tenta di consolarmi riguardo alla mortalità e mi garantisce che la morte fa parte della vita e noi tutti moriamo, prima o poi. Stranamente queste rivelazioni sussurrate all’orecchio alle tre del mattino mi portano a saltare giù dal letto urlando, accendere tutte le luci di casa e a mettere su la marcia “StelleeStrisce” a tutto volume fino a che non sorge il sole.

A volte immagino che la morte potrebbe risultarmi più tollerabile se mi spegnessi nel sonno, anche se in realtà non accetto di morire in nessuna forma, se non forse preso a calci da una coppia di sexy cameriere. Forse se fossi religioso, e non lo sono, anche se a volte mi viene da pensare che tutti potremmo essere parte di qualcosa di più grande, come nel marketing multilivello. Un grande filosofo spagnolo ha scritto che tutti gli esseri umani aspirano alla “estrema persistenza della coscienza”. Non è uno stato facile da mantenere, soprattutto se sei a cena con gente che non fa altro che parlare dei figli. Eppure ci sono cose peggiori della morte. Molte le danno al cinema vicino casa vostra. Per esempio non vorrei sopravvivere a un ictus e per il resto della vita parlare con la bocca storta come quelli che bisbigliano consigli sulle puntate all’ippodromo. Non vorrei neppure entrare in coma e stare in un letto d’ospedale ancora vivo, ma senza poter neppure strizzare gli occhi per far capire all’infermiera che guarda Fox News di cambiare canale. E poi chi me lo dice l’infermiera non sia uno di quei pazzi angeli della morte che odiano veder soffrire le persone e che non mi riempia la flebo di benzina verde?

Peggio della morte è anche essere in terapia intensiva e ascoltare i miei cari discutere animatamente se staccare o meno la spina e sentire mia moglie dire: “Secondo me possiamo farlo, è già passato un quarto d’ora e stiamo facendo tardi a cena”.

La mia angoscia è di finire come un vegetale, qualunque vegetale, incluso il mais, che in circostanze più liete mi piace abbastanza. Ma è davvero così bello vivere in eterno? A volte in tv vedo servizi su certa gente alta che abita in zone di montagna piene di neve e nei villaggi tutti campano fino a 140 anni o su di lì. Ovviamente non mangiano altro che yogurt, e quando alla fine muoiono non vengono imbalsamati, ma pastorizzati. E non dimentichiamo che questa gente sana va sempre a piedi, perché vi sfido a trovare un taxi sull’Himalaya. Ma chi ha voglia di passare i suoi giorni allo sprofondo, dove il massimo divertimento è vedere chi riesce a sollevare più in alto il bue a mani nude?

Riassumendo, esistono due gruppi ben distinti, gli ipocondriaci gli allarmisti. Entrambi hanno i loro problemi che possono essere in qualche misura sovrapponibili, ma che uno sia ipocondriaco o allarmista, oggi come oggi è comunque meglio che essere repubblicano.

Da La Repubblica, SABATO 19 GENNAIO 2013, p. 41

L’illusione del controllo è essa stessa il controllo?

Avere l’illusione del controllo equivale ad avere il controllo? Io credo di si.

Spesso commettiamo l’errore di pensare che il solo mondo esistente sia il mondo oggettivo, mentre è fondamentale considerare l’importanza del mondo soggettivo, che non è affatto meno reale, in quanto crea la nostra proiezione interiore del mondo esterno. Anzi, forse quello è l’unico mondo reale per ognuno di noi. Forse non esiste, dal nostro punto di vista di singoli, alcun altra entità che non sia la percezione soggettiva che abbiamo dell’universo.

control-boyPer questo, per risolvere situazioni che ci sfuggono di mano, o che temiamo, forse non è importante convincersi del fatto che tanto il controllo non lo abbiamo mai, e quindi lasciarci andare, rassegnarci, ma trovare buone ragioni per pensare che la situazione è sotto controllo, direttamente da parte nostra o da parte di qualcosa o qualcuno di cui essenzialmente ci fidiamo. Secondo me questo costituisce l’elemento distintivo tra una scelta oculata, che ci fa sentire sereni, ed una scelerata, che ci fa sentire pericolosamente in balia degli eventi. Nessuno fa qualcosa pensando che non ci sia controllo della situazione da parte di alcuno o alcunché. Solo un “folle” (uso il temine con licenza s’intende), un incosciente, si comporterebbe così.

In sintesi, mentre è assai probabile che il controllo sulla nostra vita non lo abbiamo mai, o che sia quanto meno scarso, ciò che davvero conta, per vivere qualcosa senza apprensione, è almeno sentire profondamente che c’è.

Inoltre, non sono sicuro che il controllo in assoluto non esista e sia solo frutto di una nostra convinzione. In altre parole non credo che la nostra preferenza verso contesti, per così dire, più controllati sia basata solo ed unicamente su percezioni soggettive prive di fondamento logico o razionale. Secondo me esistono infiniti parametri direi oggettivi, solo molto complessi e difficili da calcolare, come è complessa la realtà stessa, che determinano il grado di “rischio”, pertanto di possibile controllo, in una situazione. Per semplificare… Ammesso che il mio istinto di conservazione sia più o meno intatto, mi lancerei in uno stagno con dei coccodrilli? No. Mi lancerei con un paracadute che non viene manutenuto da anni? No. Le ragioni sono evidenti: queste azioni portano in sé un alto rischio per la mia vita e, qualora non ce ne fosse una ragione più che valida, tenderei all’evitamento. Prenderei un aereo di linea? Se ho una percezione falsata del livello di controllo in quella situazione, non lo faccio. Ed in qual caso è cruciale lavorare sul fatto che è un mio “bias” cognitivo ad ingannarmi, determinato da un trauma, da un certo grado di insicurezza che caratterizza la mia personalità, non so.

Pertanto non credo che seguire la strada del “fatalismo” contribuisca a rendere l’evento “volo” più accettabile, se non rilassante, bensì il grado di fiducia che posso imparare a costruire (o ri-costruire) per quel mezzo, per quei semplici principi della fisica che ne permettono il volo e per gli scrupolosi protocolli di manutenzione che ne assicurano il corretto funzionalemento.